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Cercando riparo


Acque della Siberia Occidentale, da bordo di Best Explorer.

Blog di Nanni

Sono due giorni che le previsioni non cambiano, cosa rara da queste parti. La tratta che stiamo percorrendo è una delle più lunghe e delle più esposte. Passato il capo più a nord del viaggio, il famigerato Capo Celjuskin, dove massima è la probabilità di essere bloccati dai ghiacci, quest'anno fortunosamente libero, ci mancano ancora più di 1.500 miglia per raggiungere Murmansk e completare le pratiche per uscire dalle acque russe. Ma c'è un ma. Non sono passati molti anni da quando sono diventate disponibili previsioni meteo affidabili e soprattutto da quando si possono ricevere sul computer di bordo. Stiamo seguendo con attenzione l'evoluzione di un sistema di basse pressioni che si sta formando nel nord della Russia europea e che mostra l'intenzione di muoversi verso est, cioè verso di noi. Ci dicono la stessa cosa anche i ragazzi dell'Istituto Nautico De Pinedo, che ci stanno seguendo dall'inizio del viaggio nel quadro di un progetto alternanza scuola lavoro, coordinati da un professore entusiasta e dedicato. Davanti a noi, a circa settecento miglia, sei giorni scarsi di navigazione, c'è una sorta di cancello: uno stretto dall'esotico nome di Karskiye Varota che separa l'estremità nord della catena dei monti Urali dalla loro continuazione che forma la spina dorsale delle due isole della Nuova Zemliya, coperte di neve e ghiacci. Oltre il cancello ci attendono venti violentissimi e contrari: sicuramente non saremo in grado di affrontarli di petto. Tra noi e il cancello c'è ancora, molto più prossima, un'altra depressione da nord, un po' meno violenta, ma temibile perché i freddi venti settentrionali soffieranno contro una forte corrente diretta verso nord. Sono condizioni in cui le onde si alzano ripidissime e la navigazione, non impossibile, diventa estremamente sgradevole. C'è un arcipelago di fronte a noi ed è lì che dirigiamo cercando una baia ben riparata. A bordo c'è una certa stanchezza: abbiamo rinunciato a raggiungere le isole della Severnaia Zemliya, a nord di Capo Celjuskin, che avremmo gradito scorgere con la loro cappa glaciale e le coste bordate di iceberg, ma la nebbia, la corrente contraria e la fretta di arrivare a un ridosso ci hanno privato del piacere a lungo covato. Dobbiamo scartare tutta una serie di ridossi eccellenti: lo sono anche per la fauna marina e sono severamente vietati per qualunque attività non specificatamente autorizzata, inclusa la navigazione. Quella che ci accoglie è una baia ben protetta, ma assolutamente deprimente nella desolata uniformità delle sue basse coste disseminate di sassi, rese marroni dall'inverno imminente che ha spento ulteriormente i già smorti colori della tundra artica. Non una foca, non un uccello di mare, men che meno animali a terra. Solo il vento che soffia tra le sartie e il sibilo del nostro generatore eolico che ci esime dall'accendere il motore per ricaricare le batterie. Ripartiamo appena i venti da nord si calmano. Ma la stagione autunno/invernale che avanza non ci lascia respirare: un'altra forte sventolata da nord est ci sta addosso. C'è un altro ridosso un paio di giorni più avanti e c'è un altro problema: il tablet che usiamo con le carte più aggiornate va in tilt e ci mancano i riferimenti per l'ancoraggio. Unendo le risorse e consultando le carte più vecchie troviamo il percorso di avvicinamento più sicuro. Il radar non ci aiuta. La costa bassissima non fornisce echi utilizzabili e i nostri strumenti per la profondità sono anch'essi andati in panne. Abbastanza normale dopo anni di navigazione, ma decisamente inopportuno! Ci ripariamo appena in tempo. Nevica e in breve ponte della barca e coste si coprono di una coltre bianca che non vuole andarsene. Passiamo un altro paio di notti e un giorno ad attendere, con l'unico conforto di vedere sulla costa due capanne abbandonate, che usiamo come riferimento per controllare che la nostra ancora tenga. Il nostro umore non riesce a migliorare. Finalmente si riparte con condizioni favorevoli, un po' di sole inframezzato da nevicate e una bella tratta a vela. Il pilota automatico comincia a dar segni di ripresa, ma entrambe le nostre bussole sono ancora sotto l'influenza della prossimità al polo nord magnetico e alle linee di forza troppo verticali per farle funzionare correttamente. Le previsioni aggiornate, dopo qualche giorno sono un po' cambiate: la depressione sulla Russia settentrionale è un po' cambiata. Ora i venti cominceranno a spirare fra un paio di giorni da est sud est prima e fino al cancello, ma saranno ancora forti e si prevede che solleveranno onde di oltre quattro metri. Dibattiamo a lungo tra noi quale possa essere la tattica migliore: a una giornata di navigazione c'è un possibile ridosso raggiungibile attraverso una ventina di miglia di bassifondi. Non ci piace affatto. Il professor Nuzzolese e i suoi ragazzi ci mandano un ottimo suggerimento che noi, focalizzati sul nostro obiettivo, il cancello, avremmo tardato a considerare: scender lungo la gigantesca penisola dello Yamal, che si protende per quasi trecento miglia fino al dubbioso ridosso che preferiremmo evitare. Il suggerimento è ottimo: la costa, del tutto priva di baie, è uniformemente fronteggiata da fondali bassi, ma regolarmente digradanti e privi di pericoli e ci proteggerebbe dal mare grosso. Non solo: allungheremmo il nostro percorso di una settantina di miglia soltanto evitando almeno uno dei giorni di sosta. La decisione è presto presa. Si va verso sud. Intanto richiediamo la trasmissione delle previsioni aggiornate due volte al giorno. Anche la radio ha smesso di funzionare, ma la nostra programmazione, che ha previsto la duplicazione o triplicazione delle risorse più importanti, ci fa usare il sistema satellitare Iridium che pur a un costo sostenuto ci mantiene collegati col mondo. La depressione russa è ancora lì e i venti previsti non cambiano: possiamo fidarci. Tutto fila come previsto, ma non possiamo aumentare la nostra velocità e quando superiamo il promontorio appena accennato che segna un piccolo cambiamento nella direzione della costa cominciamo a sentire l'aumento del vento. Questa costa non è adatta a ridossarsi, contrariamente alle nostre speranze. I fondali sono troppo bassi e non possiamo avvicinarci abbastanza da raggiungere una zona dove le onde sollevate dal vento siano abbastanza ridotte per un ancoraggio confortevole. Il cielo si era aperto già ieri notte, mostrandoci finalmente un po' di luna e oggi ci accoglie con un sole splendente. Il vento non è ancora troppo forte (sottocosta le previsioni lo danno comunque più moderato), ma solleva un mare del tutto esagerato, cosa già sperimentata qui nell'artico. Ipotizzo che sia un effetto non tanto della maggior densità dell'aria, poco variata con la temperatura, ma della sua viscosità che invece aumenta sensibilmente con l'abbassarsi del termometro. Dove fermarsi? Dovremo continuare, magari più lentamente, per tutta la notte e il giorno successivo? Il vento si calmerà solo fra ventiquattrore. Siamo molto stanchi e soprattutto affaticati dalla continua lotta contro un mare duro, disordinato e molto corto che ci ferma la barca ogni pochi minuti e la cui sofferenza sento ripercuotersi nelle ossa: la barca è diventata quasi un'estensione del mio corpo! Scendo a sedermi alla tavola a carte puntellandomi con il piede contro la scaletta. Il portolano indica che più avanti c'è un capo i cui dintorni sono sufficientemente avvicinabili e la cui costa è orientata opportunamente. Fidarsi? Non riusciremo a raggiungerlo prima di notte, contro questo mare maledetto. Dobbiamo comunque smettere di procedere a vela, la direzione non sarebbe giusta, e accendere il motore, tenendo issate solo la randa terzarolata e la trinchetta, che comunque ci danno un po' di spinta. Il sole tramonta e la luna fa capolino dietro una cortina di nuvole che si stanno avvicinando e che l'indomani porteranno neve. Ci avviciniamo al capo. L'ora della cena si avvicina, ma senza neppure parlarci sappiamo che arriveremo prima di tutto all'ancoraggio. A cinque miglia dalla costa le onde diventano improvvisamente più basse. Ormai è buio. Questa costa è un po' più alta e il radar la batte. I nostri strumenti, che ogni tanto ci fanno la grazia di indicare la profondità, hanno invece deciso che qui i fondali sono di 150 metri, mentre la carta nautica ci dice che ce ne sono solo dieci. Ci consultiamo più per conforto reciproco che per una decisione meditata. Non appena le onde ci appaiono essere diventate sopportabili caliamo l'ancora, al buio e senza altri riferimenti di quelli del radar, non fidandoci di avvicinarci troppo a una costa invisibile. Non mi era mai successo di rifugiarmi in un ancoraggio così esposto: fuori di una costa piatta lunga trecento miglia e con dietro circa cento miglia di mare aperto! Solo davanti a un atollo in Polinesia avevo dietro di me non cento, ma quattromila miglia di oceano, ma in condizioni meteo e climatiche molto molto più gradevoli… Spento il motore, spenti gli strumenti, con un momento di osservazione per accertarsi che l'ancora tenga, la cabina ci accoglie tutti nel calore della stufa a gasolio che sta funzionando da settimane e con una gigantesca pastasciutta. La notte sarà un po' agitata per il residuo beccheggio, ma in fondo assai confortevole. L'indomani si tratterà solo di attendere che il vento si moderi e poi via per il Karskiye Varota: qualche giorno di previsione buona ci sono stati promessi: speriamo in bene!


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