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Provideniya


A bordo di Best Explorer, Nanni Acquarone

(Free pictute from wikimedia)

Qualche giorno fa...!

Chi ha mai sentito questo nome? E' quello di una piccola cittadina dalla parte opposta della cima del Mar di Bering, a poche miglia dal famoso stretto con lo stesso nome, proprio dirimpetto a Nome, Alaska. Quest'ultima è un po' più nota: luogo del più ricco deposito di pepite e polvere d'oro della storia, teatro di immense fortune fatte e scomparse in un giorno, di vessazioni e di sparatorie, molto più sordido di quanto l'epopea del west possa aver trasmesso. Un vasto cimitero di croci bianche spazzate dal vento dell'Artico, solitarie nella sparsa giallastra bassa vegetazione della tundra in attesa di cristallizzarsi sotto la coltre bianca di un inverno che lì dura nove mesi, il tempo di far nascere un bambino. Uno di quei bambini seppelliti qui dopo la tremenda epidemia di difterite che diede origine a una mitica corsa coi cani da slitta per portare al più presto il vaccino dalla lontanissima Anchorage in soccorso dei sopravvissuti. Qui, a Provideniya, l'oro non c'è e non c'è mai stato. Come ci spiega il simpatico curatore del piccolo, affascinante museo locale, nel suo inglese fluente e quasi privo di accento. Anche fisicamente Provideniya e Nome differiscono e non poco. Nome è costruita sulla tundra piatta lungo la spiaggia e la foce dello Snake River e per raggiungere le colline arrotondare sullo sfondo ci vogliono alcuni chilometri. Qui invece siamo sulla riva di un fiordo, con la montagna che s'innalza ripida dopo una breve scarpata digradante verso il mare. C'è il porto che ha servito fino agli anni cinquanta per il rifornimento di carbone alle navi che percorrevano la rotta artica da e verso Murmansk, in Scandinavia, c'erano fabbriche per inscatolare il pesce, una fabbrica di birra, concerie per le pelli di animali selvatici, foche, renne, ecc. Tutto finito. La glasnost, l'arrivo delle navi più moderne rinforzate per il ghiaccio e alimentate a petrolio, il cambiamento delle mode, tutto ha congiurato per affossare la vita economica, e di riflesso la vita stessa, di questo insediamento. Per un po' il turismo, nell'epoca della maggior distensione fra questo e il potente vicino, ha permesso una certa vivacità, che ora si è ridotta al lumicino. Casermoni di stampo sovietico incombono sulle strade piene di buche, guardandole impassibili attraverso le occhiaie vuote delle finestre aperte su stanze ancora più vuote. Alcuni sono stati ricoperti da isolanti moderni dipinti a vivaci colori e un nuovissimo stadio da hockey in costruzione mostrano un coraggioso tentativo di rinascita. Siamo stati invitati ad assistere a una festa il sabato dopo il nostro arrivo. Un'occasione unica per aprire uno spiraglio sullo spirito degli abitanti. Un'occasione che abbiamo colto altre volte, in giro per il mondo. Saliamo verso un edificio dall'aspetto curato e ufficiale posto in posizione dominante, strategicamente prospiciente uno spiazzo verso cui scende una larga gradinata, pronto per qualsiasi manifestazione ufficiale si volesse celebrare qui. All'interno, al primo piano, c'è una sala riunioni con un piccolo palcoscenico su cui un gruppo di ragazze con abiti fantasiosi stanno terminando la loro esibizione. Una piccola folla applaude entusiasta, ammassata davanti a file di banchetti colmi di cibo dall'aspetto strano e di modesti souvenir di pelle di foca. I visi hanno fattezze inusuali: i russi con nasi più piccoli e con un angolo più pronunciato dei nostri, gli occhi chiari come i capelli, poi ci sono persone dalle fattezze asiatiche che non distinguiamo. Una prosperosa giovane russa stretta a malapena in un tubino nero di lunghezza al limite del legale è pesantemente truccata, come ci si può aspettare da chi non è abituato ad agghindarsi, ma è l'unica. Altre donne, per lo più di mezza età indossano vesti di pelle ornate da perline bianche e azzurre che ricordano da vicino motivi etnici simili dell'altro continente qui di fronte, particolarmente evocative ai nostri occhi inesperti. Un bimbetto alto poco più di un palmo con indosso una veste azzurra a fiori ereditata dalla sorellina e che gli giunge quasi sotto le scarpine ondeggia serissimo tra il pubblico e gli attori con la testa ancora priva di capelli al ritmo dei tamburi. Sul palco si susseguono le rappresentazioni: balalaika, ovviamente, danze ucraine, recite Eskimo (qui il termine si usa ancora), recite Chuckchi accompagnate da canti e tamburi. Queste ultime ricordano quelle dei Koriaki viste a Petropavlovsk. Non capiamo una parola di quello che la presentatrice ci racconta né di quello che dicono gli attori, nelle loro lingue e in russo, ma è chiaro che le suggestive danze Chuckchi parlano di natura e di animali. Non è uno spettacolo per turisti, tanto più coinvolgente quanto inaspettato. I banchetti si aprono a gustare le specialità locali, alcune davvero ottime. La nostra preferenza va ai cibi ucraini, più vicini ai nostri gusti, ma non mancano gli assaggi a quelli eskimo, mattaq (pelle di balena) compresa. Perfino i nostri compagni più valetudinari e “fastidious” si rimpinzano di manicaretti che in barca susciterebbero il loro orrore. Fuori si è alzato il vento da nord. La barca urta ripetutamente nella notte contro il fianco del rimorchiatore cui siamo ormeggiati di andana, malgrado i parabordi generosamente distribuiti, con sinistri scricchiolii che ci allarmano mentre ci vediamo un film sul computer. I relitti a cento metri sopravvento non ci proteggono dalla risacca. Siamo preoccupati per la partenza di domani, non sarà facile staccarsi dal rimorchiatore. Avremmo dovuto calare un'ancora prima di accostarci all'arrivo, ma chissà che quantità di rottami sarà sparsa sul fondo e non sono certo acque in cui immergersi per liberare un'ancora incastrata sotto qualche grossa catena sommersa. Per fortuna le previsioni danno per il primo pomeriggio un'attenuazione del vento: non possiamo cambiare l'ora di partenza prevista già a Petropavlovsk, mille miglia fa, come ci conferma Sergei, il nostro aiuto locale mentre ci aggiorna sulle previsioni del tempo. Senza di lui, procuratoci da Alexei, il nostro angelo custode della Kamcahtka, ogni cosa sarebbe stata enormemente più complicata. Ci prepariamo alle ultime formalità locali: la polizia viene a bordo a verificare che non si ospiti clandestini e a rimproverarci amabilmente per aver mancato uno dei punti di controllo in mare di più di un miglio. Strette di mano e abbracci, con gradevole calore umano. Stendiamo una cima fra la prua e la terra sopravvento e con una manovra delicata ma ben coordinata salpiamo, tornando poi a recuperare di prua dal rimorchiatore Danilo che aveva assicurato la cima. Il mare si è calmato e usciamo tranquilli dal fiordo bordato di pareti sassose e scostanti. Sento un po' di compassione per queste persone confinate qui e prive di evidenti prospettive. Non sono poi molti i posti visitati nel nostro lungo viaggio che comunichino una tale cappa di tristezza. Perfino nel Nunavut canadese, dove le tradizioni locali perdute sono in via di recupero, gli abitanti sembrano più contenti della loro vita. Mah. Cosa ci aspetta ora a Pevek, e a Tiksi, dove non avremo neppure il permesso di sbarcare? 


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