Non ci sono animali, nell’Artico.
Questo lo sapevamo già. Si vede che l’Oceano lassù, coperto per dieci mesi dal ghiaccio, non offre condizioni molto favorevoli alla vita.
Sto esagerando, lo so. La vita c’è, ma si trova per lo più ai margini della banchisa e noi quest’anno quella non l’abbiamo raggiunta.
La cosa faceva parte delle condizioni, molto rigide, imposteci dai russi già prima di concederci il permesso: passaggio autorizzato senza assistenza solo in acque libere. Altrimenti…
Altrimenti non lo sappiamo, ipotizziamo che volesse dire: tornate indietro!
Quindi è stato con ansia crescente che per un mese si è consultata la mappa dei ghiacci e abbiamo considerato le informazioni aggiornate da E-Geos, che riceveva le immagini direttamente dal satellite.
C’era un blocco persistente a circa cinquecento miglia dallo stretto di Bering. Una massa di ghiaccio appoggiata alla costa siberiana, insuperabile. Un altro pezzo di mare ghiacciato era presente ben prima, nel Mar di Bering, vicino a costa.
Poi, mentre l’attesa per i sospirati imprevisti permessi necessari si prolungava, il ghiaccio si riduceva a vista d’occhio e un paio di settimane prima del nostro ingresso nell’Artico era praticamente sparito, lasciando dietro di sé una vasta area di frammenti che avremmo poi incontrato anche noi, nella nebbia.
Tornando agli animali, quindi, niente margine del pack, niente narvali, niente beluga, niente foche, niente orsi bianchi, accidenti!|
I trichechi delle isole Diomede, le due sentinelle dell’Artico, apparendoci accanto in gruppo, ci avevano fatto sperare in un’annata più favorevole, ma così non sarebbe stato.
Anche gli uccelli marini si sono rarefatti allontanandosi da Bering, per poi sparire del tutto dopo Pevek.
Ormai alla fine dei mari glaciali dai nomi esotici e praticamente ignoti ai più, Mar dei Chuckchi, Mare della Siberia Orientale, Mar di Laptev, Mar di Kara, ci apprestiamo dopo un mese e mezzo a uscire nell’altro mare adiacente, quello di Barents, che bagna anche il nord della Norvegia e che marca una decisa discontinuità climatica.
La calda Corrente del Golfo arriva fin lì, molto più fredda, ormai, ma calda abbastanza da modificare l’aspetto del cielo, da rendere meno rigide le notti e da riportare sul mare i nostri vecchi amici fulmari, che planano giocando coi refoli di vento intorno alla barca.
Un piccolo imprevisto, un perno che si stacca dal motore del pilota automatico, ci consiglia di fermarci per la riparazione in un’insenatura della costa nel Karskoiye Vorota, lo stretto che separa le isole della Nuova Zemlia dal continente, proprio in corrispondenza della parte settentrionale della catena dei Monti Urali.
Siamo anche reduci da una tempesta passata a ridosso della penisola dello Yamal, una lingua di terra bassissima e lineare lunga quasi cinquecento chilometri, una specie di costa della pianura Padana enorme e senza attrattive architettoniche. Questa sosta ci dà l’occasione di un momento di respiro.
Il cielo si anche aperto ed è uscito qualche raggio di sole.
Danilo ne approfitta per distendere la schiena dopo essersi piegato in cinque per la riparazione del perno e si mette a osservare la baia dell’ancoraggio, un paesaggio finalmente mosso da colline e falesie.
Gli pare che uno dei massi bianchi che punteggiano la costa abbia cambiato forma. Mi chiama: “Ma ci sono orso bianchi qui?” Lui non ne ha mai visti.
“Non credo, siamo così lontani dai ghiacci!”
“Ma quello è un orso!”
“Ma va… Dove?”
“Lassù, sopra la scarpata”
Prendo il binocolo e guardo. C’è una massa bianca tondeggiante, immobile.
“Ma no. E’ un masso”
Ho appena finito di dirlo che il masso si muove e tira su la testa: è proprio un orso, bianco!
Anzi, un’orsa. Appena si alza vediamo che ha con sé un piccolo, già ben cresciuto.
Gli occhi neri, brillanti, spiccano distinti sul bianco del muso, proprio sopra il nero del naso.
Si rimette sdraiata.
Avviamo di corsa il motore, tanto è ora di andare. Le urla e i fischi che i miei compagni si affannano a emettere non interessano minimamente l’orsa, come avevo predetto.
Dirigo la barca verso la falesia, con estrema lentezza, anche perché non siamo sicuri delle profondità. Infatti a poca distanza dalla costa tocchiamo il fondo, delicatamente. Nessun problema.
Mentre faccio retromarcia l’orsa alza il muso annusando. Siamo proprio così sporchi?
Si solleva decisa e trotterella verso una spiaggetta lì accanto.
Ehi! Vuole scendere in acqua. Uau!
Entra in acqua: in fondo è definito un mammifero marino. Per un attimo penso che vada a nutrirsi di una qualche carogna sommersa, l’ho già visto fare e lei e il piccolo sono sorprendentemente ben pasciuti.
No. E’ proprio interessata a noi. Nuota col piccolo al seguito proprio verso la barca.
I miei compagni non hanno idea del pericolo che rappresenta, tanto più che la barca ha una piattaforma a poppa su cui potrebbe salire agevolmente.
Non sanno che noi siamo un bel piatto di carne pronto in tavola per lei.
Durante le mie navigazioni alle isole Svalbard ho avuto più volte notizia, purtroppo, di uccisioni di esseri umani da parte degli orsi bianchi. Non c’è da scherzare. E questa è proprio interessata a noi!
Mi tengo pronto con la mano sui comandi del motore.
Lei si ferma a quindici o venti metri da noi.
A bordo l’eccitazione è al colmo. Le macchine foto sono roventi.
Ci guardano, lei davanti e il piccolo dietro. Annusano l’aria. L’odore deve essere insolito.
Forse non le piace.
Nuota parallela alla barca. Si ferma. Si volta. Poi decide che non siamo di suo gusto e si dirige verso riva.
Il piccolo, che aveva nuotato fin qui, afferra la pelliccia della mamma e si fa trascinare, il pigrone…
Cosa fanno qui, così lontano dal ghiaccio? Sono in ottima salute. Giusto per smentire una buona parte delle storie sulla loro prossima fine.
Va bè che una rondine, pardon, un’orsa, non fa primavera, ma c’è da riflettere...