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Viaggio senza tempo IV - La prima grande impresa


Ghiacci alla deriva

Il Passaggio a Nord Ovest di “Best Explorer”, dalla preparazione alla conclusione, è narrato nel libro scritto a quattro mani da me e da Salvatore, ha il titolo “Senza Bussola fra i Ghiacci” edizioni Mursia. Qui vi offro una sintesi che sottolinea soprattutto gli stati d’animo durante l’intera impresa.

La nascita dell’idea

Quando cominciai a interessarmi del Passaggio a Nord Ovest fu per pura curiosità. Anzi, ero convinto che fosse un’avventura proprio da matti.

La colpa, se così vogliamo chiamarla, fu sicuramente di un francese nostro amico, Olivier, che stava partendo per la sua seconda impresa artica, il periplo del Nordamerica, dato che aveva già percorso anni addietro il Passaggio con una barca più piccola di quella attuale, lunga più di 20 metri.

Sembrava, ed è, una persona del tutto normale. Mi domandavo che cosa potesse spingerlo ad affrontare per la seconda volta un viaggio così estremo, visto che, da persona schiva qual è, non ricavavo molto dalle sue parole.

Negli stessi giorni mi capitò di incontrare anche Eric, un altro francese taciturno e riservato di passaggio a Tromsø con la sua barca, una specie di motorsailer, che per primo aveva compiuto il periplo dell’Artico in senso antiorario.

Dovevo saperne di più. Entrambi avevano scritto un libro per raccontare le loro esperienze e me li procurai, leggendoli di furia per cercare qualche risposta: era una navigazione proprio da matti. Considerate che ancora a quella data, eravamo nel 2009, l’impatto del riscaldamento globale era assai meno sensibile di adesso e i ghiacci più persistenti.

Mi ero incuriosito, però, e mi misi a cercare se per caso non ci fosse stato qualcuno più loquace in Italia cui chiedere qualche delucidazione in più. Invece niente. Sembrava che nessun italiano fosse passato di là, neppure come equipaggio.

Mia moglie Mariele cominciava a guardarmi storto.

Visto che avevamo più o meno deciso di terminare a breve la nostra esperienza nordica e di puntare verso il Mar di Cortez e la Baja California, aggiungendo per buona misura la Colombia Britannica e l’Alaska, che avevamo già visitato su barche a noleggio, mi venne naturale confrontare le due rotte: quella via Panama e l’altra via Passaggio a Nord Ovest.


Le due rotte

La conclusione l’avevano già tratta nel 1500, anche con maggior ragione perché allora per andare in quei posti (peraltro ancora ignoti) si sarebbe dovuto passare da Capo Horn: il Passaggio è molto più breve.

E stava maturando la voglia di conquistare un primato invidiabile: essere la prima barca italiana a fare quello che già altre nazioni avevano fatto!

Superate le, deboli, resistenze in famiglia con l’entusiastica approvazione di Nicoletta ci buttammo nella preparazione di quella difficile navigazione.

La preparazione

Ci eravamo dati un termine di due anni, per far coincidere il viaggio con le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Noi: io, naturalmente, con il coinvolgimento dell’intera famiglia, Mariele soprattutto, poi Nicoletta, Filippo che si è aggiunto quasi subito al team, Giulio, Spinone, Giancarlo e Giuliano.

Fu un lungo periodo di stati d’animo altalenanti fra l’entusiasmo, l’apprensione e lo scoramento, inframmezzato dalle navigazioni estive alle Svalbard che dovevano pur continuare. Ci trovammo ad affrontare sfide organizzative e finanziarie molto complesse e difficili, tenendo sempre presente che eravamo quattro gatti e che non avevamo che minime risorse.

Partire senza una base economica stabilita rende tutto estremamente difficile, ma d’altra parte aiuta a scremare le parti non essenziali e a filtrare gli inevitabili elementi spuri.


"Best Explorer" in cantiere

L’animo umano è un soggetto strano. La fantasia spesso si lancia in territori che le persone non sarebbero in grado di affrontare. Così ce ne sono che presi dall’entusiasmo si spingono a promettere partecipazioni e sostegni che poi, a mente più fredda, scoprono di non essere in grado di rispettare.

Qui, purtroppo, affiora un aspetto molto sgradevole, assai più frequente di quanto non ci si aspetterebbe: la codardia. Invece di farsi avanti e di chiarire, quanto prima tanto meglio, di essersi spinti troppo oltre e di ritirare apertamente le promesse (nulla di male nel fare questo: essendo impegni offerti liberamente non avremmo avuto titolo per insistere), questi conigli si dileguano in silenzio. Non si rendono conto, o se ne fregano, del danno che provocano. Anche se prudentemente non ci si fa troppo conto, i mancati impegni causano ritardi e impediscono di trovare in tempo soluzioni alternative.


Tromsø

Questa fu la causa principale dell’accumulo dei ritardi che ci fecero posticipare di un anno la partenza e mancare le celebrazioni nazionali.

Un’altra sorpresa solo parzialmente messa in conto fu l’assenza di interesse della maggior parte delle aziende e dei media, che ci privò, come succederà ancora, di un sostegno importante.

Dal lato positivo ciò ci permise di essere liberi di seguire i nostri tempi e modi di navigare.

Intorno all’Associazione Arctic Sail Expeditions – Italia, creata per l’occasione, riuscimmo a raccogliere, quasi magicamente e abbastanza tardi, un equipaggio costituito da persone entusiaste e motivate. Alla fine ventuno persone dettero la loro adesione.

Le voglio citare subito, in ordine alfabetico: Cristina, Danilo, Filippo, Francesco, Giancarlo, Heike, Loredana, Mariele, Mario, Mauro, Nicoletta, Paolo, i due Paolo, Piercarlo, i due Pietro, Salvatore, Silvano Spinone e Stefano. Due arriveranno all’ultimissimo momento: Salvatore una settimana e Mariele due giorni prima della partenza e una, Paola, mentre siamo già in viaggio!


Il nuovo motore in corso di installazione

Preparata adeguatamente la barca, in particolare con un nuovo affidabile motore e l’aiuto sostanzioso di Silvano, i ponti dietro di noi sono ormai tagliati: non si torna indietro!

Il giorno in cui si mollano gli ormeggi ho le gambe molle. Sono confortato dalla presenza di Mariele e da quella di Filippo, skipper professionista cui non dico quello che penso e cioè che mi appoggerò a lui se mi sentirò al di sotto del compito che mi sono assunto!

Si va!


Henningsvær, alle Lofoten

Avremmo voluto ripassare dalla remota Jan Mayen, ma il tempo ci nega quella rotta, così scendiamo lungo la Inderleia, il passaggio interno lungo i fiordi, fino al Maelsrtom, in fondo alle isole Lofoten, per poi traversare le 1.000 miglia circa verso l’Islanda.

La traversata, affrontando un bel nordovest sui 35 nodi proprio fuori delle Lofoten, rafforza la mia sicurezza. Filippo è una certezza, ma vedo che compio le scelte corrette: bene così. Scopro con immensa gioia un compagno ideale in Salvatore col quale stringo dopo pochi giorni un legame solidissimo che continua tuttora. Sento che la sua calma e la sua empatia mi sosterranno per tutto il viaggio. Pensare che ci siamo incontrati praticamente solo al suo arrivo in Norvegia e ha scelto di compiere l’intero viaggio! Un ottimo inizio che promette bene.

Abbiamo organizzato la spedizione dividendola in otto tappe con otto cambi di equipaggio. È una scelta con dei pro e dei contro, ma che si rivelerà ottima dal punto di vista umano.


Provviste da stivare

Il primo cambio avviene a Reykjavik, in Islanda. Il paese sta subendo ancora i postumi della crisi finanziaria che lo ha messo in ginocchio, ma l’atmosfera è fantastica e la gente ci appare molto più cordiale di quanto non fosse nella nostra visita precedente. Ci regaliamo un po’ di turismo e scopriamo con sorpresa che quello che stiamo facendo suscita molto interesse. Un interesse di persone che conoscono l’oceano e che ci conforta e ci compensa del disinteresse dei connazionali, quelli che sono restati in Italia.

Perché i residenti in Islanda ci regalano un immenso calore e un grande affetto. Compresi i nostri rappresentanti ufficiali, tanto che il nostro Ambasciatore, che apprende per caso di noi, non solo ci onora del suo invito, ma diventerà con l’occasione un nostro ottimo amico e più tardi, in Pacifico, anche un membro dei nostri equipaggi.

La fortuna sembra favorirci: invece delle attese depressioni che normalmente spazzano l’oceano a sud della Groenlandia navighiamo serenamente e allegramente le 1.200 miglia che ci separano da Nuuk, la sua capitale, con un tempo quasi mediterraneo, incontrando balene, capodogli, globicefali e iperodonti (delfinoni rarissimi).


Cielo di mezzanotte, Stretto di Davis

Col tempo che si mantiene ottimo risalire la Groenlandia diventa un’esperienza eccitante e estremamente appagante. Ne sono protagonisti assoluti gli iceberg e la popolazione Inuit. Ne riportiamo ricordi duraturi e significativi, che cominciano a farci comprendere qualcosa di una realtà lontanissima dalla nostra, sia geograficamente che etnicamente e socialmente. Le nostre opinioni cambieranno da allora radicalmente su molti argomenti, non ultimo sulla nostra intima convinzione di essere al centro del mondo.


Groenlandia, le ragazze possono essere pericolose!

Gli equipaggi si succedono. I rifornimenti anche. La maggior parte delle provviste è stata completata in Islanda dopo un primo carico fatto in Norvegia: d’ora in poi non incideremo sulle scarse riserve delle popolazioni canadesi, che ricevono i rifornimenti una volta all’anno, più settimanalmente via costosissimi e aleatori contatti aerei. Solo gasolio e acqua sono più abbondanti d’estate e di quelli non potremmo farne a meno.

L’estremo nord e il ghiaccio


Pack e foche

Di ghiaccio ne abbiamo incontrato già molto più a sud, vicino a Capo Farvel, l’estremo sud della Groenlandia: è l’estrema propaggine della corrente di iceberg che si stacca dalla costa nord est e scende verso sud con la corrente costiera che contorna la gigantesca isola in senso orario. Mentre si risale verso nord si incontrano anche gli iceberg che si staccano dai ghiacciai della costa occidentale e vengono trascinati un po’ più al largo. Sono incredibilmente maestosi e di una bellezza indicibile. Pericolosi anzichenò. Sia perché possono rovesciarsi e non sarebbe igienico trovarsi alla portata delle loro profonde radici mentre si capovolgono, sia perché sono circondati dai “growler”, i pezzi che si staccano e restano a galleggiare intorno mentre lentamente si sciolgono. Sembrano piccoli, ma in realtà sono rocce anche di diverse tonnellate e molto dure, meglio non picchiarci contro, dato che si vedono molto male specie se il mare è un po’ agitato.


Iceberg

Riusciamo a fare qualche passeggiata, a prendere molte foto ai ghiacci e ai ghiacciai e a incontrare un po’ di persone. Non avevamo messo in conto che è l’epoca delle vacanze scolastiche e così il programma di scambio culturale messo a punto con un liceo di Torino sarà meno produttivo di quanto sperato.

L’atmosfera a bordo è sempre ottima e amichevole e la tensione della navigazione si è stemperata quasi del tutto. Incontriamo anche qualche altro navigatore che aspetta come noi che il pack nel labirinto di isole davanti a noi cominci a sciogliersi.


Emozioni indimenticabili

Gli iceberg sono sempre più maestosi e sono loro a regalarci momenti indimenticabili quando ci troviamo a navigare nella nebbia fitta tra di loro, fantasmi eterei e giganteschi, in un corridoio che si va restringendo. Anche col radar non riusciamo a vedere un’uscita, tanto sono serrati, ma alla fine sgusciamo fuori per un pertugio e credo che il nostro sospiro di sollievo si sia sentito molto lontano.


Spettacolosi effetti di luce fra i ghiacci

Le coste canadesi che si rivelano in una mattinata gloriosa dopo una breve ma intensa traversata con vento assai teso sono dirupate e nere, scostanti, così come l’imbuto che ci snocciola nel Pond Inlet, davanti al paese dallo stesso nome, dove entriamo in Canada e facciamo conoscenza con la squisita ospitalità delle Giubbe Rosse, che purtroppo non vestono l’uniforme di gala, ma solo quella grigia di lavoro.

Altro cambio di equipaggio e via per la tratta centrale del Passaggio.


Danni alla fiancata

Il ghiaccio sta appena cominciando a sciogliersi, ma ci intrappola proditoriamente, anche per la nostra inesperienza, procurandoci qualche danno per fortuna non fatale e costringendoci a fare molte più miglia del previsto.


Una falesia alta 500 metri

La bussola ha cominciato a fare le bizze perché siamo piuttosto vicini al Polo Nord magnetico. I passaggi tra le isole non ci creano troppi problemi perché il tempo rimane spesso abbastanza chiaro e la visibilità al nord in queste condizioni è ottima. Incontriamo ancora ghiaccio e proprio nella zona che nel passato aveva rappresentato un ostacolo insormontabile ci troviamo, secondi quell’anno, a superare, inoltrandoci coraggiosamente e fortunosamente nel labirinto dei pochi stretti passaggi rimasti liberi, il pack quasi completamente serrato.


Dopo una notte scurissima e senza più ghiaccio, la prima dell’anno perché finora avevamo luce per ventiquattr’ore, arrivammo finalmente nel punto centrale del Passaggio, dove Amundsen nel 1903 passò due inverni a fare osservazioni scientifiche e qualche figlio: Gjoa Haven. Brindisi, soddisfazione e baci alla terra da parte di qualcuno di noi che aveva temuto, giustamente, una fine anticipata della nostra avventura.

Il paesaggio cambia

È la metà di agosto e il tempo dà qualche segno di cambiamento: ogni tanto nevica. Approfittiamo della sosta per un piccolo cambio di equipaggio e per una insolita esperienza della tundra glaciale, sollecitati a fare ricerche archeologiche, alle quali siamo davvero poco preparati, da Joseph, l’inuit che ci ha perso sotto la sua protezione. Tanto fa che ci spinge ad andare a cercare la nave perduta di Franklin. Ed è con grande sorpresa che alcuni anni dopo verremo a sapere che nel farlo ci siamo passati proprio sopra, avendo intuito (siamo o non siamo il popolo più intelligente del mondo, o no?) dove avrebbe potuto andare ad arenarsi. Peccato che non avessimo gli ecoscandagli speciali necessari per individuarla.

La rotta ci conduce attraverso una serie di stretti e di passaggi che percorriamo tutti a motore, perché beneficiamo di un tempo incredibilmente calmo e sereno.

"Best Explorer" a Cambridge Bay, ripresa da Street View di Google

Quello di noi che ci ha raggiunto a Gjoa Haven è incavolato nero, perché ormai non incontreremo più ghiaccio. Noi altri siamo ben contenti, anche se un po’ delusi dalla mancanza di animali. Solo qualche oca canadese che si sta preparando a tornare a sud e qualche caribù. Degli orsi, che avevamo incontrato nella tappa precedente, solo le tracce fresche nel fango della riva.

Usciti dal labirinto delle isole del Nunavut sappiamo che ci aspetta una lunga se

Tuktoyaktuk

quenza di coste piatte e fangose: l’Alaska del nord non è spettacolare. Stiamo per uscire dal Canada e nell’ultima sosta canadese arriviamo con molto anticipo sulla tabella di marcia. I nostri amici decidono di rientrare subito e Salvatore ed io rimaniamo ad attendere da soli il prossimo equipaggio.

Completiamo il Passaggio

Tuktoyaktuk, questo il nome curioso del villaggio dove siamo, alla foce del Mackenzie, ci ospita con calore e simpatia, pur essendo piatto e paludoso da piangere. Le uniche alture intorno sono i monticelli dei pingo, stranissime costruzioni naturali di ghiaccio che crescono incessantemente sotto la terra dove c’è una vena d’acqua che scorre sopra al permafrost.


Un "pingo"

Ci godiamo la sosta e la reciproca compagnia in inattività forzata, anche perché non sarebbe stato comunque igienico proseguire per via di una tempesta da nord ovest a più di 40 nodi che sommerge con l’acqua alta metà delle strade del paese. Siamo decisamente già in autunno.

Quando arrivano Nicoletta e Mauro sta ancora soffiando la coda della tempesta. Dobbiamo partire al più presto perché la stagione avanza e c’è un grande pezzo di pack di un centinaio di miglia di diametro che si trova al largo di Punta Barrow, la propaggine più settentrionale dell’Alaska. Se i venti settentrionali lo spingessero verso la costa la situazione per noi diventerebbe critica.

I bambini del villaggio sciamano spesso in barca, ne sono affascinati, e sono loro ad avvisarci che stanno per celebrare la messa. Non siamo molto religiosi, ma siamo onorati di poter partecipare a un evento simile con la comunità cattolica del posto, da cui siamo accolti con calore.

Con noi si sono fermate altre due barche che salpano tutte a poca distanza l’una dall’altra. Il cielo è grigio e le propaggini delle montagne del Brooks Range sono già innevate. Sono le ultime montagne che incontreremo fino allo Stretto di Bering, da qui in poi solo pianura bassa e paludosa con poche collinette costiere.

Sono piuttosto teso: ci aspettano più di milleduecento miglia senza riparo davanti a una costa piatta, con fondali così bassi che l’Adriatico si vergognerebbe e alle soglie dell’autunno astronomico, che qui significa inverno. Ciò nonostante troviamo

Pauline Cove

il tempo per fermarci a Pauline Cove, o Thetys Bay, nell’isola di Herschel, dove Amundsen passò il suo ultimo inverno qui. Il posto è deserto e assai tranquillo, si capisce bene come fosse stato scelto per rifugio invernali dalle baleniere di fine Ottocento. Vaghiamo tra le poche case e le tombe d’epoca sentendo su di noi il peso della durezza della vita di quei tempi, soprattutto per gli Inuit sfruttati a morte da quei gentiluomini di balenieri.

Lasciamo Pauline Cove accompagnati da un’ultima visione delle scogliere rese bianche dal permafrost liberato dal battere delle onde libere dai ghiacci marini, uno spettacolo assolutamente inusuale e probabilmente effimero. Poi solo vento contrario, spiagge quasi impercettibili, bassi fondali e cielo scuro.

Mauro deve sbarcare prima del tempo, anche perché la sosta di Punta Barrow deve essere spostata 500 miglia più oltre a Nome. Un bel problema, perché c’è un’onda lunga di un paio di metri, avvisaglia di una forte tempesta che arriva da nord. Qui sono attrezzati e mentre siamo già diretti verso sud troviamo un posto dove lo vengono a prendere con una motobarca apposita.

La tempesta arriva e raggiunge nella notte i sessanta nodi. La nostra tensione è al massimo, anche se abbiamo molta fiducia, ben riposta, nella barca. Un paio di problemi presto superati, i guai col maltempo sono all’ordine del giorno, gestibili solo se la preparazione della barca è stata ottima, contribuiscono a renderci memorabile la cavalcata verso lo Stretto di Bering e il raggiungimento dell’obbiettivo primario, che superiamo nel pomeriggio del giorno successivo.


Il passaggio fra le due Diomede

Il tempo cambia da scuro, ventoso e nebbioso non appena superato il passaggio tra le due Diomede e un mare piatto e un bel sole ci accolgono subito dopo, dandoci l’occasione per inanellare infiniti scherzi su oriente, occidente, oggi e domani, visto che abbiamo tracciato un paio di zig zag attraverso la linea del cambio di data che è anche il confine tra America e Asia. Le due isole Diomede appartengono una agli Stati Uniti (la Piccola, quella più a oriente, che fa quindi parte dell’Occidente e al giorno 1) e l’altra alla Russia (la Grande, quella più a occidente, che fa quindi parte dell’Oriente e al giorno 2). Abbiamo finito quasi tutto l’alcool e brindiamo tra noi tre che più italianamente non si può con un goccio di marsala.

Lo spirito è a mille, anche se rimane, almeno su di me, una certa apprensione per le ult

Il Passaggio è superato!

eriori mille e passa miglia da fare prima di poter lasciare la barca. Infatti saremo costretti a rimanere confinati nella mitica cittadina di Nome per ben diciannove giorni in attesa di un intervallo tra le depressioni che ormai alle soglie di ottobre spazzano il terribile Mare di Bering.


Foto ricordo

Nicoletta ci lascia e imbarchiamo Filippo, che è tornato con noi, Heike e Paola. I problemi non sono ancora finiti, perché dobbiamo trovare un rifugio per l’inverno (Nome non è proponibile per una serie di ragioni) e abbiamo ormai il tempo contato. Un’eccezionale acqua alta ci raggiunge anche qui, sommergendo le banchine del porto e facendo sparire le spiagge che ancora regalano sia pur

Le barche dei cercatori d'oro

raramente delle pepite d’oro (non a noi!). Non riusciamo a legare con i cercatori d’oro, che appartengono a una diversa categoria umana, ma approfondiamo l’amicizia con gli equipaggi di altre tre barche, due delle quali erano con noi a Tuktoyaktuk. Sono le ultime dell’anno. L’inverno è arrivato e la mattina troviamo ghiaccio sul ponte. Siamo impazienti e c’è da stare attenti che l’impazienza non si traduca in imprudenza.

La traversata verso le isole Aleutine e il Pacifico offre un unico riparo, che con un respiro di sollievo sfruttiamo per una notte, messi a dura prova da una bolina con 35 nodi con annessa avventura notturna di corrente e vento che mantengono la barca in un equilibrio innaturale.

Il resto del percorso è duro, ma sotto il sole. Le notti sono ormai ben lunghe. Continuano i venti forti dai settori occidentali. Ogni tanto superiamo dei pescherecci illuminati a giorno da una corona di lampade abbaglianti per la pesca dei granchi, danno molto fastidio agli occhi. L’ingresso in Pacifico è occasione di un penultimo brindisi (a Nome avevamo fatto opportuno rifornimento) con un gradito illusorio intervallo di calma cavalcando un mare lungo da sud gratificati a sinistra dallo spettacolo dei magnifici vulcani innevati dell’isola di Unimak, la prima delle Aleutine, mentre a destra si scorgono i profili delle isolette che fronteggiano l’isola di Unalaska.


Tempesta a King Cove

Le ultime ventiquattr’ore le passiamo lottando contro un vento di prua di oltre quaranta nodi, ma non ci sono alternative: dobbiamo raggiugere il porto rifugio di King Cove, il più vicino, dove lasceremo la barca, non abbiamo più tempo. Mi spediscono a dormire: sono stremato. Salvatore e Filippo si sorbiscono stoicamente tutta la notte di tempesta. Ma ne avevo bisogno per essere lucido all’arrivo.

Ci siamo: è mattina presto. Non appena attraccati e assicurati per bene il vento sale a ottanta nodi e lì rimane per tutto il giorno. Appena in tempo!

Ci affrettiamo a preparare la barca per l’inverno e a prendere accordi per il guardianaggio, mentre le signore si occupano del trasporto aereo, che ci prenderà ben cinque giorni! I locali, ben diversi e più socievoli che a Nome, ma qui sono pescatori, si assicurano che non si faccia neppure un passo a piedi: in giro qui vicino ci sono i grizzly! Malgrado la fretta siamo ormai completamente rilassati: Tutto è alle nostre spalle. Gli obiettivi sono raggiunti. La barca non è più sotto la mia responsabilità diretta. Penso all’impresa compiuta e comincio a immaginare come raccontarla. Un’avventura che non ripeterò mai più!

Ancora non so di quanto mi sbagli!



Il racconto dettagliato della preparazione e dello svolgimento del Passaggio e scritto a quattro mani da me e da Salvatore è reperibile nelle librerie specializzate e su Amazon. Il titolo è “Senza bussola fra i ghiacci” edizioni Mursia di Giovanni Acquarone e Salvatore Magri.

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