Viaggio senza tempo X - Verso l'Australia

Da Tahiti all’Australia
Raggiungeremo “Best Explorer” a Tahiti, in mezzo al Pacifico. È un oceano così vasto e così colmo di mete esotiche e remote che ci piange il cuore di non poter rimanere lì intorno ed esplorarlo tutto. Ci vorrebbero molti anni e molto più tempo di quanto noi non si possa dedicare alla bisogna. Il compromesso che abbiamo trovato e che ci permette di soddisfare la nostra passione per la navigazione è appunto un compromesso che impone regole e rinunce.
Perciò quest’anno, invece di continuare a esploralo, finiremo di attraversarlo del tutto.
Ci dirigeremo verso l’Australia, sembra ragionevole nel caso dovessimo terminare in oriente la nostra avventura. Non sarà però la Nuova Zelanda: la rotta ci porterebbe troppo a sud: durante l’inverno il richiamo dell’Artico ha ricominciato a farsi sentire e sta sempre più spingendoci a proseguire il viaggio verso le latitudini settentrionali.
Tuttavia parto con molte incertezze, perché ancora una volta la ricerca dell’equipaggio è in alto mare, se mi è consentita la battuta. Ho un nuovo compagno appena conosciuto, quasi digiuno di mare, che ha accettato di venire ad aiutarmi e sembra entusiasta di compiere la traversata fino alle isole Fiji. Ma per ora è l’unico, oltre a Nicoletta che ha promesso di venire per alcune tratte, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro.
Tahiti

Appena arrivati troviamo una situazione ambientale assai difficile: l’umidità ha preteso un pesante pedaggio dagli interni della barca e i ladri hanno visitato il cantiere portando via i due fuoribordo che non avevo avuto il tempo di stivare all’interno. Il piccolo marina situato nell’istmo che collega le due parti di Tahiti è uno dei posti più piovosi del mondo, credo. Siamo inondati giornalmente da scrosci di pioggia torrenziale che scendono dal cielo come fitti cordoni, mentre basta andare pochi chilometri verso Papeete, che ne dista una cinquantina, per trovare il cielo quasi sempre sereno. Per di più l’acqua dei rubinetti non è potabile e il bagno è disastrato e senza luce.

Stendendo teloni sul ponte e facendo buon viso a cattivo gioco riusciamo dopo un furioso lavoro a rimettere la barca in condizioni di raggiungere il cantiere di Papeete, dove ho fortunosamente trovato posto per fare carena come si deve. Il mio compagno è di conforto, ma poco più: la sua capacità di lavoro che aveva generosamente offerto è piuttosto limitata.
Il breve tragitto verso Papeete che avevo compiuto da solo l’anno scorso, la sua prima esperienza in oceano, lo rende assai teso: benché l’acqua sia calma è un ambiente molto diverso dalle brevi gite in barca che aveva compiuto sul lago.
Sono sollevato nel constatare che il cantiere è molto ben gestito, pur essendo lontanuccio dal centro, che si raggiunge in una mezz’oretta di passeggiata. I lavori e i materiali non sono a buon prezzo, ma la competenza del personale del cantiere e dell’unico negozio di materiale nautico dall’altra parte della città sono ottime.
La stagione progredisce e il tempo è molto migliorato quando alla fine variamo la barca e con un paio di ottimi amici che sono arrivati nel frattempo ci muoviamo

verso Moorea e poi Raiatea. Nessuno a bordo ha un’accettabile competenza nautica, ma ormai conosco la zona e salvo qualche piccolo problema di ormeggio nel porto pubblico di Raiatea, che è esposto agli alisei, tutto fila liscio e quando ci raggiungono Nicoletta e Simona va anche meglio.
Le Isole della Società sono molto gradevoli anche se assai più turistiche delle altre zone polinesiane e non è difficile trovare luoghi di sosta soddisfacenti, che ci gustiamo per benino.
Il mio compagno iniziale non è chiaramente adatto per affrontare una navigazione oceanica, caso abbastanza inusuale nella mia esperienza. Alla fine decide opportunamente di lasciarci a Raiatea e rientrare in Italia. Rimane un grande problema: non sono in condizioni di affrontare tutta la navigazione da solo.
Verso le isole Cook
Ho davanti a me un tragitto di 2.000 miglia e, partita anche Simona, Nicoletta potrà venire con me solo per le prime 600. Una frenetica ricerca su internet ha però successo: risponde un certo Riccardo da Genova, pronto a venire a bordo per le altre 1.400 da Rarotonga fino alle Isole Figi.
Tiriamo un respirone di sollievo. La vacanza qui è stata rilassante, come saranno invece queste lunghe navigazioni in due e poi con uno sconosciuto? L’altra mia esperienza con Salvatore si era svolta nelle acque protette dell’Inside Passage, ma qui siamo in oceano.

È arrivato il momento di partire e di salutare questo strano lembo di Polinesia francesizzata, turistica ma non troppo, amichevole e scostante insieme. Il tempo incalza e dobbiamo andare malgrado che ci sia un fronte in arrivo che promette venti sostenuti. Le formalità della partenza sono sempre un po’ più semplici di quelle dell’arrivo e rapidamente siamo per via.
Inauguriamo quello che sarà d’ora in poi la norma: guardie singole di quattro ore. Saremo in due sul ponte solo in caso di forte maltempo. Il pilota automatico, che finora ha svolto i suoi compiti solamente durante la navigazione a motore, verrà utilizzato sempre, malgrado la riduzione delle disponibilità elettriche di bordo causata dall’esalazione dell’ultimo respiro del generatore, non rimpiazzabile qui, e il totale fallimento dei pannelli solari flessibili per la ricarica, la cui qualità e robustezza si sono rivelate assai inferiori alle aspettative.

Ci fermiamo dopo un po’ ancorandoci fortunosamente su un improbabile plateau minuscolo all’esterno della barriera dell’atollo di Maupihaa per riposarci dalla fatica impostaci dal vento e dal mare cresciuti tanto da rendere il pilota incapace di governare.
Una violenta corrente esce dalla passe proprio accanto al nostro anc

oraggio, sembra un torrente in piena, uno spettacolo impressionante, ma che ci regala anche una delle soste più belle e interessanti di tutto il viaggio. Siamo in una posizione assai precaria e ci rimaniamo per un paio di notti: finché dura questo ventaccio non corriamo alcun serio pericolo perché se l’ancora arasse la prossima costa sottovento sarebbe la lontana Australia.
Salpiamo con un po’ di rimpianto dirigendo verso Rarotonga. Le informazioni che abbiamo sul porto sono un po’ preoccupanti per via della sua piccolezza e relativa apertura alle onde.

La sagoma triangolare dell’isola ci appare quando siamo ancora distanti e ci attira come una calamita, curiosi di approdare a questa meta non troppo frequentata e nota.
NeI porto che ha solo banchine commerciali ci sono soltanto un’altra barca e una vecchia carretta arrugginita ormeggiata lungo il molo. Gettiamo l’ancora, cosa ormai inusuale nei porti, e ormeggiamo con l’aiuto del personale locale con la poppa ben distante dalla banchina, soggetta a una forte risacca.

Siamo accolti con una cortesia tutta britannica (le isole Cook di cui fa parte Rarotonga, sono amministrate dalla Nuova Zelanda) così come britannico è il nitore delle strade e delle case.
Ci prendiamo un po’ di tempo per ficcare il naso intorno e concederci una sera presso un resort che propone uno spettacolo di danze polinesiane assai belle. Poi Nicoletta parte. Tornerà a bordo alle Fiji.
La sera arriva Riccardo: leghiamo subito. Ha la fantastica idea di noleggiare un motorino con cui andiamo in giro a cercare di risolvere un problema burocratico poi rivelatosi inconsistente, ma che i funzionari locali non sanno come risolvere: vorremmo visitare il curioso atollo di Palmerston, che però non è porto di uscita e necessiterebbe di un permesso speciale per la visita. Ci mettiamo tutta una giornata per ottenerlo, poi riusciamo a salpare.
Si prospetta una bella navigazione. Riccardo è un ottimo marinaio e un eccellente compagno con cui condivido spirito e idee. Una fortuna insperata, ma che mi sorride spesso in questo lunghissimo viaggio.
Verso le Fiji

Palmeston e i suoi cordiali abitanti, discendenti tutti da un pastore protestante poligamo della metà dell’Ottocento, lo stranissimo atollo di Beveridge Reef, senza

parti emerse, in cui si ancora nel bel mezzo dell’oceano, il gigantesco blocco di corallo emerso di Niuè, il più piccolo stato/isola del mondo, regolato da norme

cristiane rigide, sono tappe piene di sensazioni irripetibili della nostra corsa attraverso queste acque equatoriali.

Una breve sosta nel gruppo settentrionale delle Tonga, dopo essere passati sopra

la profondissima fossa detta appunto delle Tonga senza notare differenze di sorta in superficie, ci mette in contatto con i primi rappresentanti dei melanesiani, assai diversi dai polinesiani per aspetto e costumi. Lì facciamo conoscenza con un

italiano che possiede un ottimo ristorante e che ci dà qualche notizia sulla cultura locale. Siamo anche in tempo per osservare le prime balene della stagione. Non ci riesce invece di pescare nulla per integrare la nostra dieta.
Non l’abbiamo neppure tentato in Polinesia per timore della “ciguatera”, un frequente rischio di avvelenamento da tossine prodotte dalle microalghe di cui si cibano lì i pesci di barriera, ma che qui è assente.

Il nostro viaggio insieme volge al termine e mentre ci dirigiamo verso le Fiji siamo visibilmente meno vivaci. Il piccolo marina di Savusavu, su Vanua Levu, ci accoglie cordialmente con la sorpresa di una severa visita sanitaria a bordo, la prima e unica mai subita nel viaggio prima del Giappone. Scopriamo solo ora che a Tahiti erano state segnalate zanzare portatrici di diverse malattie, dengue e zika in particolare, per fortuna non siamo stati infettati malgrado il grande tormento subito!

Esploriamo il mercato e facciamo un giretto nei dintorni con un paio di motorette: le Fiji sono un paese ancora diverso dagli altri ed è l’ultima occasione da godere insieme visitando un paesaggio devastato purtroppo da un recente terribile ciclone. Poi Riccardo torna in Italia con reciproco dispiacere.
Affronto da solo le poco più di cento miglia tra i reef che mi separano da Vuda Point, da cui partirà la prossima tappa. Navigo da solo per la prima volta dopo la breve gita fatta verso la sosta invernale di Tahiti e non sono del tutto tranquillo. I reef qui sono pericolosi, non cartografati accuratamente si scorgono solo osservando il colore del mare con attenzione e con la luce giusta.

Una sosta notturna protetto da un braccio di scogliera sommersa è l’occasione di un’avventura causata da un guasto all’argano sempre più riottoso mentre un forte aliseo che tenta di trascinarmi contro la barriera. Me la cavo con una certa ansia, una gran fatica e un’ora di sforzi ingegnosi.

Nel canale di acque profonde tra Vanua Levu e Viti Levu, le due isole maggiori, il vento è sostenuto e provo grande soddisfazione nel veleggiare in intima comunione con la mia barca in solitudine e piena libertà, non me lo sarei aspettato. Un po’ meno gratificante il resto del percorso che segue il canale di Viti Levu protetto dal reef con un po’ di traffico e qualche balena!
All’arrivo nel marina di Vuda Point che già conosco mi accolgono gradevolmente Carlo ed Elisabetta, conosciuti proprio qui anni prima e che tempo addietro erano stati proprietari di una barca dello stesso modello di “Best Explorer”. Peccato che debbano partire subito per uno dei loro viaggi programmati da tempo.

Questo è il primo approdo di stile occidentale dopo Tahiti: un marina attrezzato, dove ritrovo amici incontrati a Tahiti, ristoranti, negozio di attrezzatura nautica, carburanti. Quando arriva Nicoletta con Claudio ed Elisabetta, alla sua seconda esperienza con noi, siamo pronti per un giro nelle isole all’interno della gigantesca barriera.
Claudio fa un po’ fatica ad adattarsi alla vita in barca, ma presto il paesaggio e la cucina di Nicoletta lo mettono a proprio agio. Seguiamo lo stesso itinerario che avevamo esplorato quando siamo stati qui una decina di anni prima con Franco Malingri, che ci aveva svezzato alla navigazione tra i reef.
È con grande disappunto che scopriamo un ambiente subacqueo distrutto. Il ciclone ha fatto molti più danni di quelli che ci saremmo aspettati. Solo a maggiori profondità il corallo mantiene una certa vitalità. Anche la fauna ne ha risentito. Nicoletta e io siamo dispiaciuti soprattutto per i nostri amici. Ci si mette di mezzo anche il tempo che per un paio di giorni diventa uggioso e piovoso. Più avanti vedremo perfino un intero bosco di palme da cocco decapitate di netto dal ciclone.
La cerimonia della Kava, tipica di queste isole, questa volta si compie a bordo con il figlio del capo di allora, ma con una radice di kava fresca e gradevole: non è affatto pericolosa, solo molto leggermente euforizzante e passiamo davvero un bel pomeriggio insieme.
Tutto sommato la nostra navigazione qui è stata soddisfacente e i nostri amici partono contenti.
Direzione Vanuatu

Per questa tratta saremo in tre. Ci raggiunge un ospite che si è mostrato molto deciso a venire e si rammarica anche di non aver potuto portare con sé un’altra persona. Promette bene, ma l’illusione svanisce abbastanza presto.
Abbiamo con noi un dirigente di azienda che non ha ben compreso la differenza tra la gestione del business e una vacanza in barca a vela con tutte le sue caratteristiche, benché nei miei discorsi e nei miei scritti cerchi di essere il più chiaro e specifico possibile.

Così il viaggio attraverso un tratto di mare abbastanza interessante e la visita a isole affascinanti viene appannato da uno spirito che non riesce a rilassarsi, ad apprendere qualcosina sulla navigazione e a prendere il giusto ritmo dettato dal meteo e dalla geografia.

La natura qui è fantastica e la visita al monte Yasur, il vulcano di Tanna, è il massimo, con l’attraversamento entusiasmante di una foresta di felci arboree cui manca solo che appaia la testa di un tirannosauro per completare il quadro.
Peccato che Nicoletta ci debba lasciare qualche giorno dopo la partenza del nostro inquieto dirigente e non possa venire fino in Australia insieme al nuovo equipaggio.
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