Passaggio a Nord Est
Abbiamo pubblicato sul nostro sito internet la notizia del nostro progetto comincia a circolare e alcune istituzioni stanno mostrando interesse.
Ci sono sostanzialmente due modi per affrontare navigazioni importanti, modi che hanno costi diametralmente opposti: compierle in sordina, come abbiamo fatto per il Passaggio a Nord Ovest, oppure organizzandosi per dare grande visibilità all’impresa e di conseguenza agli sponsor.
Ci osservano con interesse la Marina Militare e l’Istituto Italiano di Navigazione che ci mettono in contatto anche con Agenzia Spaziale Italiana. Questi sono enti che non contribuiscono direttamente ai finanziamenti, ma che ci mettono in contatto con chi ci potrebbe sostenere.
Siccome ho sempre sperato di poter dare un contenuto scientifico alle mie navigazioni sono particolarmente felice che Salvatore riesca a stabilire un contatto con l’ENEA.
Anche l’Ambasciata Russa si interessa di noi chiedendoci se abbiamo già i permessi per il transito, ma è presto per compiere questo passo. Prima dobbiamo essere certi di poter finanziare il viaggio.
Ci sono quattro argomenti principali che bisogna affrontare: il finanziamento, il mezzo tecnico, l’equipaggio e i permessi. Siamo certi di poter mettere a punto la barca perché sappiamo bene cosa fare. Per l’equipaggio sono sicuro di poter trovare almeno tre persone capaci disposte a impiegare almeno tre mesi di seguito per il viaggio. Se troviamo la quadratura finanziaria rimane l’incognita della procedura per i permessi, che sembra complicata, ma nel caso peggiore che non ci siano concessi sappiamo che potremo comunque passare nell’Artico percorrendo a ritroso la rotta precedente.
Organizzo lavori e crociera
Sorong è in capo al mondo. Quasi, letteralmente, ma è anche il posto meno adatto per fare manutenzione.
Wick, il proprietario di Helena Marina, mi aveva rassicurato che entro l’anno scorso avrebbe avuto pronto un nuovo scalo, di cui lo scavo era già allora terminato, per alare la barca in secco.
Perciò in autunno mi do da fare per organizzare il trasporto di un centinaio di chili di materiale di manutenzione irreperibile sul posto. Trovo uno spedizioniere che mi assicura della fattibilità della cosa, con consegna della merce sdoganata alla barca e procedo all’operazione prima della fine dell’anno: in primavera, terminata la manutenzione, potremo partire e affrontare il lunghissimo viaggio verso la Norvegia.
Naturalmente ci aspettiamo di incontrare difficoltà insospettate e questo accade puntualmente.
I fornitori di materiale scientifico e di navigazione pur allettati dalla possibilità di avere il proprio nome associato a un viaggio così prestigioso si defilano uno dopo l’altro. Sono tutti talmente avidi e presuntuosi che invariabilmente si aspettano non solo di trovarci deliziati dal poter esporre i loro nomi sulla barca, ma addirittura ansiosi di pagare per il materiale ricevuto senza che la cosa costi loro un centesimo. Ci tratteniamo a stento dal trattarli a male parole quando si sorprendono di ricevere una riposta negativa.
Solo con l’ENEA e con l’ASI i contatti proseguono stabilmente.
La spedizione avrebbe dovuto concludersi a metà Gennaio, ma senza l’intervento continuo di Wick e della sua impiegata Ayu non sarei riuscito a ricevere nulla. Dovrò poi essere io stesso a concludere l’operazione sul posto a costi triplicati. Alla faccia della professionalità dello spedizioniere, che ovviamente si defilerà.
Tra ritardi e difficoltà è chiaro che dovrò rivedere i piani e rimandare il Passaggio a Nord Est all’anno prossimo.
Quindi quest’anno andremo in Giappone. Ci sono pro e contro per questa scelta non facile.
Bisogna trovare un posto dove poter fare una revisione seria della barca, tanto più che il famoso scalo di Helena Marina è rimasto fermo e quindi quest’anno non potrò alare Best Explorer.
Mentre ci siamo dovremo portarci a nord per ridurre i tempi del Passaggio e per allontanarci il più possibile dalla zona dei tifoni che prende in pieno le Filippine e il sud del Giappone e dovremo avere a disposizione un retroterra industriale dove sia possibile trovare dei tecnici validi.
Molti mi hanno avvertito che il Giappone è carissimo e non facile, ma non mi hanno spiegato il perché: io associo la difficoltà alla lingua.
Il timore dei tifoni prevale non mia mente: ho visto i risultati sia in Baja California che in Australia e preferisco tenermi il più distante possibile. Sarà il Giappone.
L’ENEA si attrezza per inviare all’Ambasciata italiana a Tokyo il nuovo fluorimetro che sta costruendo appositamente per noi: lo testeremo in Giappone.
Indonesia
L’equipaggio per andare in Giappone è ottimo! C’è Nicoletta, che sarà con noi per la prima parte qui in Indonesia, poi Etienne, Gianfranco e Pietro, che è una vecchia conoscenza del Passaggio a Nord Ovest.
C’è anche un ragazzo, che però ci abbandona subito risparmiandoci il mal di pancia di doverlo sbarcare.
Ma Best Explorer è stata invasa dai ratti!
I ratti qui sono grigi e un po’ più piccoli dei nostri, ma sono impudenti e aggressivi: mentre ci prendevamo un attimo di riposo seduti sul ponte ne è arrivato uno di corsa che voleva saltare a bordo tra le nostre gambe e che abbiamo penato a scacciare! Nel Marina vivono anche numerosi gatti, ma sono così scheletrici e minuti che credo scappino davanti ai roditori.
I danni sono molti, strani e gravi: hanno roso dei cavi ottici insostituibili e un altro cavo della radio, degli sportelli di legno e un po’ di farina, trascurando riso, pasta e altri alimenti. La pulizia diventa la nostra priorità assoluta.
Svuotiamo la barca e la ripuliamo a fondo, spargendo trappole e veleni e ponendo, troppo tardi, griglie di inox davanti a ogni piccola apertura sul ponte.
Approfittiamo del tempo che dobbiamo attendere per ridipingere lo scafo. I mei marinai fanno miracoli.
Questi paesi lontani dalle disponibilità del mondo moderno hanno ancora artigiani capaci e disponibili, ne avevamo avuto prova in Messico e alle Galapagos. Qui non fa eccezione.
Il frigorista che Wick mi aveva procurato l’anno scorso mi aveva fatto sapere che pezzo dovevo procurarmi e l’avevo trovato fortunosamente a Torino da un analogo e disponibile dell’artigiano indonesiano (sono sempre più rari da noi!). Il frigo viene sistemato in quattro e quattr’otto a costi ragionevolissimi: alla faccia dei tecnici australiani.
Siamo di partenza. Addio a Wick e Ayu, insostituibili. Addio ai difficili trasferimenti stradali in 4x4 verso Sorong, addio alle mangrovie e ai serbatoi di acqua piovana, l’unica disponibile qui, e addio ai ratti, speriamo per sempre!
Ci dirigiamo a passi brevi e corti verso Ternate, alle Muluku, dove ci hanno assicurato che si potranno completare le procedure di uscita dal paese e dove sbarcherà Nicoletta.
Ripassiamo dagli atolli già visitati ed esploriamo qualcuna delle meraviglie di Raja Ampat godendoci panorami e fondali corallini. Gianfranco dà subito prova della sua capacità di pescatore: finalmente ne abbiamo uno a bordo! Nella foga del recupero del suo primo pesce si fa un piccolo graffio a una gamba.
Deve averlo trascurato perché dopo una settimana, improvvisamente, mentre stiamo dirigendoci verso Ternate, accusa febbre molto alta e la gamba gli si arrossa e si gonfia in modo impressionante.
Per fortuna Pietro è medico e abbiamo a bordo gli antibiotici giusti, ma è una lotta che Pietro non sa se vincerà. Ci mettiamo due giorni ad arrivare laggiù con
temperature alte che non diminuiscono la sofferenza di Gianfranco: sarebbe inutile
chiamare soccorso, non verrebbe nessuno, neanche via satellite e quanto potevamo fare a bordo è stato fatto. Alla fine delle prime ventiquattr’ore sembra che la progressione dell’infezione si sia fermata. Grazie a Pietro e alla fibra di Gianfranco.
A Ternate lo ospedalizziamo, beato fra le infermiere, mentre la dottoressa conferma la cura, che prosegue fino a guarigione.
Mentre aspettiamo che il paziente si rimetta cerchiamo di ottenere i visti di uscita, ma non c’è niente da fare: le indicazioni ottenute erano sbagliate e i funzionari si irrigidiscono sempre più. Quando alla fine decidiamo di recarci a Bitung, a Sulawesi (Celebes), che è un porto ufficiale di uscita l’atmosfera si rasserena di colpo.
La deviazione allunga la rotta di un paio di centinaia di miglia e ci costringe a un ritardo imprevisto, ma il mio equipaggio ha tempo e finalmente non siamo costretti a viaggiare con il cronometro in mano.
Ternate è un’isola totalmente mussulmana. Purtroppo siamo ancorati vicino alla moschea principale e subiamo le cinque chiamate giornaliere alla preghiera via altoparlanti al massimo volume, oltre agli echi della altre numerose moschee che non sono coordinate. Pietro sta per uscirne pazzo. Ma la gente è incredibilmente cordiale. Ci fermano di continuo per strada salutandoci e stringendoci la mano, felici di fare la nostra conoscenza.
Queste sono isole vulcaniche e i coni ci circondano da tutte le parti: speriamo che non si mettano in moto mentre siamo qui!
Fatto rocambolescamente rifornimento di gasolio, ce ne pentiremo più tardi, salutiamo Nicoletta e ci dirigiamo a Bitung. La visita è brevissima, giusto il tempo di completare le pratiche di uscita. Il caldo è notevole, anche l’acqua del mare supera di un po’ i trenta gradi: speriamo che il motore non si surriscaldi.
La deviazione su Bitung comporta dei problemi: a nord c’è l’isola filippina di Mindanao che è rifugio di pirati pericolosi. Sono passati pochi mesi dal rapimento seguito dall’assassinio di un velista. Ci sono avvisi ripetuti di evitare la zona a sud, proprio dove adesso dovremo passare noi.
Filippine
Traccio una rotta che ci tenga distante un centinaio di miglia almeno compiendo una specie di quarto di cerchio attorno a Mindanao e incrociamo le dita.
Stiamo entrando nella ITCZ, la zona tra gli alisei e l’equatore e i venti sono incostanti, le calme estese e i temporali violenti e frequenti. Sul mare incontriamo piattaforme di legno galleggianti con capanne di giunchi rigorosamente senza segnalazioni. Non c’è luna e non si vedono né con gli occhi né col radar: sono un pericolo costante.
Il gasolio che ci hanno venduto a Ternate è sporco e ci troviamo a lottare con continui fermi del motore, dando fondo alle nostre riserve di filtri. Il vento non aiuta e la corrente è contraria: quella favorevole passa a più di cento miglia più al largo e si allontana dalla costa. Raggiungerla non ci aiuterebbe molto.
Una mattina spuntano dal nulla nove lunghi barchini con fuoribordo molto veloci e ci raggiungono mettendosi a ventaglio a poppa. Etienne è al timone e mi chiama fuori (stiamo facendo guardie singole). Sembrano cordiali e a segni ci domandano sigarette, qualcosa da mangiare e da bere, qualcosa da mettere addosso. Non abbiamo molto a bordo e nessuno fuma.
Scendo in cabina a prendere qualche bagatella, niente birra, per carità, solo coca cola, scatolette, magliette usate.
Ringraziano, ma continuano a starci intorno per una buona mezz’ora, osservandoci. Noi ostentiamo calma, ma dentro di noi lo spirito è diverso.
Alla fine decidono di andarsene e ci sorpassano con facilità.
Ci diciamo che devono essere pescatori, ma non è che ne siamo del tutto convinti. Comunque è andata bene…
Più avanti avvicinandoci a costa osserviamo le cicatrici di grandi estrazioni minerarie che deturpano la natura. Ci infiliamo tra le isole davanti al Golfo di Leyte, testimone di una grande battaglia navale della seconda guerra mondiale e ci divertiamo, in calma assoluta, a navigare contro una corrente di marea di sei nodi che ci lascia appena avanzare. Ogni tanto, quando le condizioni lo permettono, vale la pena fare qualcosa di estremo, come questo procedere che in altre condizioni potrebbe essere estremamente pericoloso.
Ricomincia il traffico marittimo e alziamo l’attenzione.
Non passa molto tempo che arriviamo a Cebu, una grande città a ovest di Leyte. Gianfranco ha un amico italiano qui, Mario, e ci fermeremo qualche giorno a fare rifornimenti. Ne approfitteremo per alcuni pasti italiani nell’ottimo ristorante di Mario: la cucina di bordo in assenza di Nicoletta ha raggiunto il livello più basso di sempre, malgrado gli sforzi di Gianfranco, ma lui non può cucinare sempre.
La città ha quasi un milione di abitanti e c’è di tutto, purtroppo per noi molte cose seguono lo standard americano o giapponese, che con mia grande sorpresa è diverso sia dall’americano che dal nostro e questo ci crea diversi problemi.
Noto grandi contrasti tra parti estremamente moderne e ricche e una gran parte piuttosto “asiatica” e povera. Le Filippine hanno una storia contrastata con influenze spagnole cui si è sovrapposta una dominazione americana nell’ultimo secolo che, unita all’occupazione giapponese nella guerra e alla loro attuale rilevanza strategica non mi pare abbia elevato il livello morale della popolazione.
Mi spiace non poter approfondire la conoscenza di questo complesso paese, di cui Gianfranco e il suo amico Mario dicono un gran bene. Le differenze storiche e culturali sono così grandi che ogni tentativo di interpretazione è sicuramente fallace.
Ripartiamo diretti a Subic Bay nell’isola più settentrionale di Luzon, dove c’è un moderno marina ed è porto di uscita.
La rotta si dipana attraverso le molte isole dell’arcipelago, riparata e varia. Approfittiamo della vicinanza per fermarci una sera a berci una birra di fronte al sole che tramonta e un’altra per una nuotata nelle acque calme di un’altra piccola isola. Un’altra mattina il perfetto cono del vulcano fumante Mayon ci sorride all’orizzonte orientale.
Passiamo un paio di notti da incubo per non speronare le barche da pesca fitte come zanzare e spesso senza alcuna luce nella notte buia. E dire che i canali qui sono trafficati.
Ed infine ci ormeggiamo comodamente nel marina di Subic Bay, il primo davvero moderno dopo l’Australia. Intendiamoci, è molto pittoresco fermarsi nei porti pescherecci o commerciali e amo molto ancorarmi in baie deserte, ma avere acqua buona, docce a volontà ed elettricità a disposizione e non doversi preoccupare di risacca e di tenuta dei fondali ogni tanto fa bene!
Siamo stati invitati alla festa della Repubblica all’Ambasciata d’Italia a Tokyo e pianifichiamo la rotta per poter arrivare in tempo.
Non sembra facile: non è chiaro come ci si possa muovere in Giappone, che ha molte regole restrittive. Oltre a inviare in anticipo notizia del nostro arrivo, un po’ come avevamo fatto per l’Indonesia, dobbiamo capire dove lasciare la barca per un po’. È previsto che si ritorni tutti in Italia nel mese di Giugno, mentre io ritornerò lì dopo qualche settimana per prendere in consegna l’apparato dell’ENEA e per continuare la navigazione con chi avrà deciso nel frattempo di venire con noi per visitare le coste giapponesi.
Decidiamo infine di fare l’ingresso a Okinawa e di proseguire poi per Kagoshima, nell’isola più meridionale di Kyushu delle quattro principali che formano il Giappone: più a nord ci porteremo e minore sarà il rischio di essere colpiti da qualche tifone.
È l’ultimo tratto del nostro lungo viaggio insieme e lo faremo in acque di cui conosciamo poco. Non ci sono pubblicazioni disponibili per il diporto, i siti giapponesi non hanno traduzioni in altre lingue, la gran parte delle persone che abbiamo incontrato eviterebbero di recarsi in Giappone e tutti sottolineano le difficoltà che incontreremo, ma senza darci ulteriori dettagli.
Non siamo preoccupati, ma un po’ ansiosi sì, non ultimo per l’incognita del comportamento del tempo e del mare e della possibile presenza di barche da pesca cinesi che i filippini temono assai per la loro aggressività.
Gianfranco è piuttosto deluso dagli insuccessi nella pesca. Aveva catturato diversi esemplari di un pesce che qui sembra abbastanza comune, simile a un serpente, con un lungo becco fornito di numerosi temibili denti e talmente pieno di spine da risultare quasi immangiabile (gempylus serpens).
Ci concediamo una breve sosta con bagno sull’ultima spiaggia riparata a nord di Luzon e poi facciamo rotta per passare un centinaio di miglia a ovest di Formosa, un’altra possibile meta che siamo obbligati a mancare.
Il tempo ci favorisce tra venti leggeri e mare calmo.
Un incontro con uno scafo di plastica semiaffondato rincuora Gianfranco che riesce a catturare diversi bei pesci riparati all’ombra prima che l’arrivo di uno squalo faccia scappare tutti verso le profondità.
Un giorno ci troviamo di fronte una miriade di bersagli AIS: pensiamo di essere incappati in una flottiglia da pesca, ma devono essere trasmettitori installati sopra dei gavitelli per reti o palamiti, perché non vediamo nulla neppure passandoci vicino.
Il Giappone copre una vastissima area del Pacifico perché possiede una quantità di isole sparse per ogni dove. Ne incontriamo qualcuna assai prima di arrivare a Okinawa e le guardiamo con curiosità mentre ci passiamo lontani: i nostri sguardi hanno toccato per la prima volta le terre del Sol Levante!
Giappone
C’è vento e un po’ di mare sotto un cielo non più sgombro quando superiamo le sentinelle rocciose che si trovano a sud di Okinawa con le onde che frangono minacciose sugli scogli: sono curioso e un po’ dubbioso per quello che ci attende. Non sono certo che la radio che ho tentato di riparare dopo i danni dei ratti funzioni a dovere.
Superati alcuni piccoli atolli che non mi aspettavo di trovare qui Best Explorer entra nell’immenso porto di Naha e comincia a cercare il punto di attracco che non siamo certi di aver individuato.
Le comunicazioni con la terra sono difficili, sia per le bizze della radio sia per la stranezza delle indicazioni ricevute, ma alla fine vediamo un gruppo di divise che sembrano attenderci e ci accostiamo.
Si manifesta subito il peculiare rispetto giapponese per le regole: Gianfranco salta a terra per prendere gli ormeggi e suscita una reazione di orrore di tutti i presenti. “No! No! Torni a bordo! Prima il controllo sanitario!” Gesti, atteggiamento e confuse parole sono assolutamente eloquenti.
Mezz’ora dopo abbiamo superato i controlli e siamo ufficialmente in Giappone.
Il nostro posto di ormeggio è molto vicino all’aeroporto da cui decollano e atterrano di continuo jet militari.
Scoprirò in seguito che Okinawa ha uno status diverso dal resto del Giappone. Gli stessi Giapponesi da sempre non la considerano propriamente parte del Giappone e dalla fine delle guerra è sotto il controllo americano che en ha fatto un’importantissima base. La vicinanza con la Cina e con la Corea danno ragione di questa situazione.
La città è modernissima, ma cominciamo a renderci conto che la cultura è completamente diversa dalla nostra, oltre alla circolazione a mano sinistra. Non ci sono posti dove posare la spazzatura e per noi questo è un serio problema. La pulizia in compenso è maniacale.
Le normali carte di credito non sono accettate dappertutto e i contanti sono molto diffusi. Quasi nessuno parla inglese e ovviamente le insegne sono per noi totalmente incomprensibili.
Anche se si supera il problema della lingua la comprensione reciproca sembra difficile: si direbbe che pensano e ragionano in modo assai diverso.
Anche i controlli sono poco comprensibili: tornano per ben due volte a rispiegarci le norme di sanità e si sorprendono quando diciamo loro che ce le hanno già comunicate, ma questo non modifica di un millimetro il loro comportamento.
Sembra che segnalare con precisione la pianificazione del nostro viaggio, che già dovevamo fare in Indonesia, qui sia di vitale importanza.
Però non riusciamo a sapere in anticipo dove potremo fare sosta a Kagoshima perché sembra che ciascuno abbia un limitatissimo settore di competenze e se non si trova la persona adatta addio speranza di ottenere una risposta.
Comunque sia alla fine ci mettiamo in rotta verso nord.
Sta arrivando del vento da sud ovest e qualcosa mi suggerisce di non fidarmi. Un po’ più avanti c’è un’isola con delle belle insenature ben orientate. Sollevando qualche perplessità nei miei amici che sono stati mal abituati dal bel tempo sperimentato finora getto l’ancora ben vicino a un promontorio che divide in due un profondo golfo.
Il fondale è corallino, ma troviamo un tratto con un buon fondo.
Non passa molto che il vento rinforza ancora e veniamo sballottati da raffiche a più di cinquanta nodi che spazzano il mare e che girano anche intorno al promontorio provenendo da un ampio settore, com’era da attendersi.
Il mattino successivo resta solo la coda del vento e proseguiamo in relativa tranquillità.
Il mare non è del tutto regolare. Siamo accanto al letto del Kuro Shivo, la corrente del Pacifico occidentale analoga a quella del Golfo e che viaggia verso nord. Queste correnti non hanno un flusso ordinato, ma nella generale tendenza verso nord e soprattutto verso i loro margini generano numerosi vortici e credo che noi si sia dentro uno contrario al vento, perché le onde sono ripide e irregolari, molto poco confortevoli. Se ho ragione questo è stato un altro buon motivo per non viaggiare col vento forte di ieri, malgrado fosse favorevole.
Ci passano in vista numerose piccole imbarcazioni veloci, alcune della Guardia Costiera, altre che fanno servizio passeggeri, ma nessuna ci disturba.
Vicino a Sata Misaki, la punta più a sud di Kyushu che delimita a est la profonda baia di Kagoshima, è segnata una zona di forti rapide (ovefalls) che interseca il canale di passaggio del traffico marittimo commerciale.
Dobbiamo attraversare un’interrotta linea di gigantesche navi che transitano nelle due direzioni lasciando loro la priorità, anche se siamo a vela.
È un passaggio delicato, ma breve e le correnti non ci disturbano molto. Poco dopo una megattera che salta fuori dall’acqua ci dà il benvenuto.
Bene o male individuiamo una banchina vicino a un cantiere da diporto dove ci potremo ormeggiare. Chiamiamo la Guardia Costiera senza ricevere risposta, ma dopo non molto arrivano loro da noi e si rinnova il rito burocratico che avevamo già sperimentato a Naha, con successive visite di rinforzo.
Speravo di poter tirare a terra la barca per fare carena, ma il cantiere non è attrezzato. Con una notevole difficoltà di comunicazione e chiarendo bene che non si prendono responsabilità accettano di dare un’occhiata alla barca in nostra assenza: meno male, perché il bacino commerciale in cui siamo non è affatto adeguato a una barca come la nostra.
Prima di lasciare Kagoshima per andare a Tokyo e in Italia cambiamo ormeggio e ancoriamo la barca con due ancore afforcate ben distanti allontanandola dalla banchina. Abbiamo fatto tutto il possibile date le circostanze.
L’intervallo a Tokyo
è gratificante: la festa all’Ambasciata è spettacolosa e facciamo alcune interessanti conoscenze. Altrettanto interessante la breve permanenza che ci familiarizza un poco con la vita e la cucina giapponese con la guida di Gianfranco che ne ha una certa conoscenza.
Il ritorno in Italia ha una qualche utilità per gli accordi con l’ENEA, ma non fa progredire come speravo la preparazione per il Passaggio a Nord Est. Era già chiaro che per quest’anno non si sarebbe potuto far nulla.
Torno in Giappone a recuperare l’apparecchio dell’ENEA in ambasciata e raggiungendo la barca a Kagoshima. Parteciperemo a una manifestazione a Nagoya presentando le nostre navigazioni.
Il responsabile del cantierino, con cui comunico via tablet, mi dà una mano a salire in barca, cosa impossibile da solo, e mi organizza i rifornimenti.
Mentre aspetto Nicoletta, che sarà l’unica a raggiungermi in Giappone, devo affrontare il passaggio di un tifone che mette a dura prova le mie risorse. Il bacino portuale diventa un inferno di risacca, ma bene o male ne usciamo con minimi danni alla falchetta.
L’acqua del porto non è limpida, ma deve essere pulita perché vedo addirittura delle mobule saltare ogni tanto fuori della superficie.
Abbiamo in programma di andare a Nagoya, a circa cinquecento miglia, per poi seguire la costa verso sud ovest e cercare per via un marina per lasciare la barca per l’inverno. Siamo un po’ incerti perché dal quel poco che abbiamo visto ci sembra che qui siano abituati a un approccio alla nautica totalmente diverso.
Siamo fortunati: abbiamo il permesso di entrare nei porti chiusi! In Giappone sussiste ancora una norma che commina il sequestro per la nave e la prigione per il comandante che entri senza permesso in uno degli innumerevoli porti, tutti definiti chiusi agli stranieri, salvo un permesso speciale.
Da poche settimane la procedura per ottenere questo permesso è stata enormemente semplificata.
Non siamo ancora riusciti invece ad ottenere il permesso di spostarci tra un porto e l’altro senza completare sia in ingresso che in uscita tutte le procedure doganali, lunghe e ripetitive.
Arrivata Nicoletta non perdiamo tempo e salpiamo, lentissimi. La carena deve essere incrostata di cirripedi. Gianfranco l’aveva pulita prima di partire dall’Indonesia e forse ha peggiorato le cose riducendo l’antivegetativa residua. Ci prendiamo un pomeriggio a pulirla parzialmente in immersione con una fatica notevole.
Il tempo è calmissimo e limpido. Il vulcano attivo che domina Kagoshima ci ha lasciato sul ponte un po’ di cenere nera.
Davanti al capo Sata Misaki assistiamo a uno spettacolo impressionante attraversando la zona delle rapide. Si alzano onde frangenti di un paio di metri mentre passiamo con sei o sette nodi di corrente favorevole. Immaginate che razza di calderone potrebbe diventare se ci fossero delle onde e del vento!
Non molte miglia dopo entriamo in un ramo favorevole del Kuro Shivo. L’acqua è più calda e blu cobalto, quasi come alle Tuamotu. È splendido e non appena fuori della rotta delle numerose navi ne approfittiamo per fare un bel bagno!
La corrente aiuta la nostra lenta progressione: la pulizia è stata positiva, ma non sufficiente per farci recuperare tutta la nostra velocità.
Avvicinandoci a Nagoya dobbiamo lasciare il Kuro Shivo e quando arriviamo allo stretto che porta alla baia di Nagoya siamo lasciati alla nostra sola propulsione meccanica.
Intanto abbiamo cominciato a incontrare le numerosissime bettoline tutte con lo stesso scafo che sembra siano qui il principale mezzo per trasporto merce. Ne abbiamo contato fino a venticinque in vista intorno a noi: c’è da fare attenzione.
Però sono molto rispettose e ci sorprendono per la quasi assoluta assenza di scia.
Abbiamo anche incontrato le zone di ripopolamento per i pesci, segnate spesso solo da canne di bambù ben poco visibili.
A Nagoya ci ripariamo in un moderno marina vicino alla fermata della metropolitana che porta all’aeroporto. Comodo per qualsiasi esigenza, benché per nulla economico.
Mentre da una parte ci prepariamo a eseguire la nostra presentazione al festival organizzato dalla Camera di Commercio italiana, cerchiamo di capire le opzioni per tenere la barca in cantiere e con grande disappunto riceviamo non solo dei dinieghi ma anche delle predizioni negative. La nostra barca per il Giappone è talmente fuori dagli standard locali che nessuno immagina chi o come ci si potrebbe occupare di lei.
Riceviamo solo una potenziale indicazione riguardante un marina di Osaka ed è lì che decidiamo di fare rotta. Dopo una sosta per terminare la pulizia della carena e recuperare ancora un nodo di velocità lasciamo Nagoya con l’intenzione di procedere verso Osaka con il salto della pulce, fermandoci il più possibile per strada.
Passiamo un piacevole periodo comprendendo qualcosa di più delle abitudini nautiche giapponesi e sorprendendoci nel vedere gran parte delle coste protette contro gli tsunami da giganteschi muraglioni. La disposizione di questi e l’uso di gran parte delle anse riparate per gli allevamenti di pesci non sono certo favorevoli al turismo nautico e le autorità sono sconcertate nel vederci andare a zonzo: per loro è un’assoluta novità.
Durante un avviso di uragano, che non si verificherà, ci rifugiamo in un porto peschereccio prima della baia di Osaka. I pescatori ci hanno sempre aiutato a trovare un ormeggio adatto con una cortesia che accomuna tutti gli omologhi non mediterranei. L’attribuiamo alla mancanza di pressione da parte dei marinai improvvisati che tanto infestano i nostri mari. Mentre rientriamo da un breve giro turistico un gruppo di loro che sta mangiando vicino alla nostra barca insiste perché condividiamo il loro pasto e con l’aiuto del traduttore automatico dei cellulari riusciamo anche a ridere insieme.
Le correnti rendono questo mare un po’ complicato da navigare e il traffico mantiene alta l’attenzione. Non ci sono che poche rade adatte alla sosta, mentre la gran parte sono occupate, come dicevo, o da allevamenti di pesce o da porticcioli che spesso sono troppo piccoli o comunque impraticabili per la nostra barca.
Le città e i villaggi sono tutti sparsi nelle pianure mentre noto con mia grande sorpresa che le colline sono invariabilmente boscose e selvagge. Visto che la costa è così esposta agli tsunami non capisco perché non abbiano costruito anche solo qualche decina di metri più in alto. Nei nostri paesi è stata la malaria e la paura dei pirati a farci occupare le alture!
Il marina di Osaka è molto esclusivo e al momento non ha posto per noi, però ci mette in contatto con Noby, il suo soprannome, che è un agente, parla bene inglese e ha una certa conoscenza dell’Italia e degli italiani: ottimo. Seguendo il suo suggerimento ci spostiamo un po’ più a sud, a Tannowa, dove troviamo una buona sistemazione per l’inverno sotto la responsabilità del comandante del porto. Con Noby organizzeremo i lavori di manutenzione per l’anno prossimo, a partire da Gennaio.
A Tannowa non ci sono le attrezzature per alare Best Explorer in secca, ma ci sono a Osaka.
Un grande peso ci viene tolto dalle spalle.
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