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Bolina


La barca si inclina, il vento preme sulle vele cazzate a ferro, la prua manda nuvole di spruzzi a perdersi sottovento, il volto si protende in avanti avido di vento e di sole, l'eccitazione è al colmo. Chi, velista, non ha provato l'inebriante sensazione di un'uscita in mare col vento teso a tirare bordi sottocosta spingendo al massimo la barca? Bell'andatura, la migliore! Sicuri? Davvero? Io ci penserei due volte.

Abbiamo appena dato fondo all'ancora dopo una bolina. Siamo stanchi, ma sollevati: è finita. Siamo partiti ieri alle dieci di mattina e ora sono le cinque mezza di sera, proprio al tramonto del sole. Trentuno ore e mezza di bolina, in oceano. Col vento che è salito da otto a venticinque nodi e poi di sceso nuovo a otto, più e più volte. Con raffiche a trenta sotto gli acquazzoni torrenziali dell'equatore. Con il mare confuso del Pacifico: onda lunga di fondo, onda più breve e ripida dell'aliseo, onda corta e rabbiosa del vento locale, tutte sovrapposte e scoordinate fra loro. Onde e vento in direzioni diverse, s'intende. Beccheggi, rollate, tuffi nei cavi profondi di due onde combinate che appena prima si sono unite per raddoppiare la loro altezza, frangendo. Col risultato di fermare di colpo la barca che stava accelerando a sei-sette nodi. Sotto coperta il caos: appena fatto il caffè, colla caffettiera ben fermata sui fornelli, nel tempo di prendere la tazza uno dei tuffi di cui sopra e blam! Tutto il caffè finisce sopra la cucina, il frigorifero, penetra sotto gli armadietti, s'infila nelle intercapedini e dopo il suo aroma si sentirà per giorni. I lavelli che hanno lo scarico sopra la linea di galleggiamento finiscono a turno di trovarsi sotto il pelo dell'acqua, che li riempie e tracima in sentina: dopo venticinque giorni di andature di poppa ci siamo dimenticati di chiudere le valvole. Siamo in due e ci diamo il cambio ogni due ore: chi smonta rimane a dormicchiare in pozzetto, incastrato tra il sedile sottovento e lo schienale per non rotolare sul pagliolo. Poi arriva il groppo e al buio e sotto un rovescio d'acqua da giungla amazzonica dobbiamo prendere una mano di terzaroli e rollare un po' di fiocco. Lo fa uno solo, perché l'altro deve stare al timone. Finita la manovra, sempre tra i tuffi nei cavi delle onde, i rollii, le imbardate, il vento torna a otto nodi e la barca avanza, se va bene, a due. Non abbiamo più neppure la relativa stabilità che avevamo prima. E allora si guarda il cielo, buio, impenetrabile, in attesa di capire se c'è un altro groppo in arrivo, annunciato da un buio più profondo, perché le stelle sono scomparse da un pezzo e neppure la luna ce la fa a illuminare la scena. Non c'è. E così non rimane che svolgere il fiocco. La mano di terzaroli no, la lasciamo: ci vuole troppo tempo a riprenderla, se ce ne fosse bisogno. Ma almeno c'è il mare che, col sole che il secondo giorno finalmente esce, splende con la superficie d'argento cesellata dalle mille increspature delle onde. I marosi che imbiancano il tormentato blu cobalto sopravvento. I due giganteschi capodogli che si trovano proprio sulla nostra rotta e che vediamo mentre sfiliamo loro accanto nel caos che ci circonda perché sembrano scogli contro cui le onde ribollono e spumeggiano. Il mare che si fa sempre più duro perché adesso le onde arrivano proprio di prua e non c'è possibilità di prenderle di sbieco. È ora di tirare un bordo nell'altra direzione, una virata di 120°, altro che Coppa America! Ma ve lo figurate prendere di petto queste onde con un angolo di venticinque-trenta gradi? Ci infilate la prua dentro! Inutile avere una barca con qualità boliniere: la sfascereste dopo poche ore. E allora, sempre in due, uno al timone e l'atro alle scotte. Poi poggia tutto! Così il fiocco si sventa e si riesce a cazzare a segno senza bisogno dei bicipiti di Rambo. Per fortuna che di bordi ne abbiamo fatti solo quattro, perché alla fine le ultime miglia quasi senza vento ci siamo arresi e abbiamo acceso il motore! Bella, la bolina!

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