Tra le Marchesi questa è la più favoleggiata: "Non ci siete ancora stati? Dovete andarci a tutti i costi!" Tutti ce lo hanno detto, tutti avevano gli occhi che brillavano al solo ricordo. La più meridionale delle isole, non è servita che saltuariamente, senza aeroporto, senza banchine per le navi, senza veri porti. Ci siamo arrivati da nord ovest, contro vento, la sera, poco prima del tramonto. Ci hanno accolto pareti a picco sul mare, soffi potenti di spruzzi ai loro piedi, eiettati verso l'alto dalle onde oceaniche incontrollate che si ingolfano in caverne sottomarine comprimendo inesorabilmente l'aria sopra di loro. Creste aguzze e dentellate come lame di sega si proiettano in mare, dorate nella luce del tramonto, aggressive contro la natura e i piccoli uomini che osano impudentemente avvicinarsi alle loro radici sottomarine, profonde già migliaia di metri a poca distanza dalla costa. Là in mezzo, davanti a una spaccatura buia e stretta, una decina di alberi di barche scintilla nell'ultima luce del giorno: ecco l'ancoraggio. L'isola è coperta di nubi che oscurano le prime stelle della sera. Ancoriamo alla luce delle lampade frontali mentre un acquazzone ci inzuppa fino alle ossa. La pioggia continua saltuariamente tutta la notte: è normale in questa stagione, e ci accompagna il giorno dopo mentre ci inoltriamo nell'interno. La nostra meta è una cascata nel mezzo della foresta. Sotto rovesci d'acqua ci incamminiamo nella spaccatura che racchiude il villaggio. Le pareti di tufo vulcanico nerastro sono coronate da pinnacoli tondeggianti che ricordano vagamente l'organo sessuale: la baia era chiamata "Baia delle verghe" e pare sia stata ribattezzata dai missionari "Baia delle vergini" (in francese sono molto simili "verges - vierges"). In ogni caso sono strutture impressionanti per la loro imponenza. Sulle pareti quasi a picco ogni tanto si vedono linee di minuscoli puntini bianchi che ondeggiano e si spostano continuamente: sono capre che passano dove la mente si rifiuta di immaginare che possa esistere un sentiero! Ogni piccola sporgenza sulle rupi umide e scivolose è ricoperta da un velo verde e dove c'è un po' più di terra crescono gli alberi delle più diverse forme e dimensioni: è la giungla! Qua e là riconosciamo l'intervento della mano dell'uomo. Ci sono estensioni di palme da cocco con le foglie raggruppate in un ciuffo altissimo con i grappoli di noci che nella pioggia rischiano di caderci in testa. Ci sono gruppi di banani carichi di frutta, di pompelmi, di arance, di limoni, di manghi, di papaie. Insomma, tutto l'armamentario della frutta tropicale sparso tra la foresta e le case circondate da fiori di ogni colore. Mentre la pioggia continua torrenziale, bagnati come pulcini continuiamo la nostra ascesa sulla strada e poi sui sentieri che si inerpicano fra le balze e le rocce, passando accanto al torrente di fondovalle gonfio d'acqua. Nel bosco emergono per un attimo le rovine di grandi mura rettangolari, forse i resti di un'area rituale. Un tempo la popolazione delle isole era molto numerosa, molte volte quella attuale, decimata poi dalle malattie portate dal contatto con gli occidentali. Qui il cannibalismo era la regola così come le battaglie tra tribù vicine, mentre il tatuaggio ornava ed orna ancora i corpi degli indigeni. Le piattaforme rituali servivano come luogo di iniziazione e di sacrificio in ogni momento importante della vita della comunità, ma il disuso, il clima e la foresta hanno cancellato efficacemente la memoria dei luoghi e delle loro ragioni di esistere.
Su, su, sempre più su sul sentiero scivoloso, finalmente graziati dalla pioggia che ha smesso di cadere, strisciando sotto pietroni a picco sul torrente, arriviamo infine alla cascata, dove già campeggia una tribù di bambini di un paio di nostri vicini di barca, gioiosamente seduti su un sasso in mezzo alla corrente fra una dovizia di fiori e frutta colorata. La cascata precipita da una rupe verticale che chiude una stretta fessura tra pareti altrettanto verticali: dà il capogiro. L'acqua è abbondante e il laghetto in fondo al salto invitante: ci si immerge grati del rinfresco, ma l'acqua del mare cui siamo ormai abituati è più calda, e il bagno è breve. Il ritorno non è meno faticoso: il terreno è scivoloso e gli equilibrismi difficili. Quel che ci accoglie in fondo alla valle è invece il meraviglioso spettacolo della fenditura della baia illuminata dal sole ormai al tramonto. I colori dorati ravvivano gloriosamente la cupezza che buio, nubi e pioggia avevano calato sul paesaggio la sera prima, dando profondità ad ogni anfratto e ad ogni cresta che emergono dallo sfondo finora uniforme della baia. Gli abitanti stanno uscendo ora dalle case e tornano all'aperto dopo il termine delle loro faccende. Tutti salutano, tutti sorridono, pur sapendo che la nostra è una presenza effimera. Infatti domani lasceremo l'isola. Abbiamo avuto giusto il tempo di imprimerci nella mente qualche ricordo. Nella luce del mattino seguente, libero dalla pioggia, la costa occidentale di Fatu Hiva scorre davanti ai nostri occhi con una drammaticità impressionante. Sono creste e creste affilate ed aguzze, precipiti, che si affondano nel mare una dopo l'altra, divise da spaccature che sembrano fatte con l'ascia. Ci domandiamo come tanta gente possa aver abitato questo luogo impossibile. Le pareti sono quasi verticali e in alto non rimane neppure lo spazio per posare il piede. Il mare colpisce la base delle rocce con cupo rimbombo e solo due o tre anse racchiudono un accenno di spiaggia sassosa. Lo spettacolo è imponente e affascinante: per nulla al mondo avremmo perso queste immagini. Siamo increduli di fronte alla diversità che le isole ci mostrano: non una è simile all'altra e ciascuna ha la sua bellezza esclusiva: ma certo Fatu Hiva è la più impressionante e drammatica. Siamo ormai lontani verso sud ovest e il suo profilo nell'indistinta umidità del giorno perde i dettagli. Pensiamo all'emozione che deve aver colto i primi scopritori che se la sono vista apparire di fronte nell'immensità di un oceano che solcavano per la prima volta: avremmo voluto essere con loro per emozionarci così, ma oggi anche così i nostri sentimenti non sono molto distanti dai loro. Fatu Hiva vale veramente il viaggio!